Giuseppe Gabellone
Per la mostra personale di Giuseppe Gabellone alla Fondazione Memmo gli ambienti sono stati modificati e scolpiti per sottrazione, eliminando tutto ciò che poteva risultare superfluo. Le installazioni site specific che l’artista pensa per la struttura risultano nude ed essenziali. Questo atteggiamento rende ancora più evidente la ricerca dell’artista che si basa sulla stretta correlazione tra spazio e tempo, tra luogo espositivo e opere. L’intero spazio vive di una forte luce naturale proveniente dalla grande parete finestrata; orario e condizioni climatiche diventano così decisive per la scoperta e percezione delle opere. Ad accoglierci vi è un piccolo frammento al centro della prima sala, si tratta di una mandibola coperta di stagno che la rende argentata, impreziosita. Un rimando chiaro al tema del tempo che ci riporta immediatamente all’antichità; reperto archeologico che narra di un indefinito passato.
Nella seconda sala una grande “zattera” arancione è adagiata al centro. Si tratta di una costruzione stratificata che nonostante l’aspetto metallico non è altro che la sovrapposizione di delicati fogli. Sintesi di un lungo processo di lavorazione durato otto mesi. Anche in questo caso è rappresentata una sedimentazione archeologica a più livelli, che dal fondo cresce come a volersi innalzare. Lo sguardo dello spettatore viene spesso spinto in basso nell’osservare questi resti in cui la materia appare rinforzata ma intrinsecamente soggetta a deterioramenti. A ribadire il concetto troviamo appese alla parete tavolette di bronzo incise che contribuiscono a creare un’atmosfera da museo archeologico in cui ogni frammento suggerisce una narrazione.
Nell’ultima sala troviamo l’opera che maggiormente caratterizza l’intera mostra, si tratta di un’installazione ambientale in cui due alberi di cipresso giacciono su di un’amaca in corda. L’albero come simbolo di vita e verticalità, abbandona la sua consueta posa e, come un glorioso colosso adagiato nel suo eterno riposo, stravolge la nostra naturale percezione delle cose. Lo strabordare da una sala all’altra rinforza la percezione di una verticalità soffocata, sacrificata in uno spazio artificialmente predisposto. La mutazione non è solamente fisica e spaziale: gli alberi, freschi al momento dell’inaugurazione, sono destinati a perire e consumarsi durante l’arco della mostra accompagnando lo scorrere inesorabile dei giorni con il persistente odore di resina e foglie in decomposizione. Anche l’olfatto diviene così dato nodale che suggerisce il lento modificarsi. Il pavimento sottostante in cui continuano a cadere e depositarsi gli aghi, ci permette di osservare questa progressivo processo di deterioramento. Aghi e foglie cadute rimangono come sedimentazione del passaggio, del tempo che porterà alla fine della mostra e alla lenta traslazione: ciò che prima viveva di aria finirà per posarsi in un gelido pavimento, a quello che metaforicamente rappresenta il collegamento tra terreno e divino.
– Alice Belfiore & Alice CerigioniGIUSEPPE GABELLONE A cura di Francesco Stocchi Fondazione Memmo, Roma 04/05/2017 – 15/10/2017